Forza e dolore in Simone Weil
Forza e dolore in Simone Weil
UMBERTO REGINA
Forza e dolore in Simone Weil
Simone Weil non vide né visse la shoah: la previde e la visse in anticipo con il mettersi sempre dalla parte degli “sventurati”: volle sperimentare la sventura, effettivamente, in prima persona. Così fu per lei possibile capire non solo le sventure già accadute (dalla distruzione di Troia all’occupazione della Francia da parte di Hitler), ma anche avvertire l’incombere di qualcosa di ancor più terribile, come sarà poi la shoah. Scoprì che responsabile di ogni sventura e di ogni “male” è “la forza”. Questa, con l’arma del dolore, consente al forte di fare del debole uno sventurato. Infliggendo e minacciando dolore, o anche promettendo la pace quale fine e finalità delle sofferenze che ogni guerra comporta, si può ottenere tutto dagli uomini: li si può ridurre a “schiavi”, come fece in modo raffinato ed esemplare Roma. Per Simone Weil, pax romana e pax germanica sono la stessa cosa: organizzazione della forza, sradicamento delle differenze culturali, diffusione contagiosa della sventura, schiavitù per tutti, anche per chi impugna la spada della forza.
1. Accettazione del dolore e trascendenza
La forza è il filo rosso delle analisi sociali e politiche di Simone Weil, e in questo senso riveste nei suoi scritti un ruolo analogo a quello che Nietzsche aveva assegnato, mezzo secolo prima, alla “volontà di potenza”. Ma gli obiettivi sono diversi. La volontà di potenza è in funzione della vita, essa è e vuole “l’innocenza del divenire”. Non così la forza che si serve del dolore per volere e diffondere il male, continuamente, sempre più, senza fine. “Il deserto cresce: guai a colui che cresce deserti dentro di sé”, aveva profetizzato e ammonito Nietzsche. Simone Weil individua analiticamente le cause e le modalità di questo processo desertificante: lo fa di persona, provando su se stessa l’abbruttimento della fabbrica, lo sradicamento del lavoro contadino, gli orrori della guerra di Spagna, le amarezze e privazioni dell’esilio. Riflettendo su queste esperienze, vissute di persona o fatte proprie, Simone Weil perviene a una tesi precisa e costante nelle riflessioni consegnate ai Cahiers: la forza produce sventura non semplicemente facendo soffrire, bensì facendo soffrire in modo che chi soffre debba far soffrire altri, ed inducendo questi altri a far soffrire altri ancora, senza fine:
Il vaso di porcellana infranto non può essere riparato; in compenso, fortunatamente, lo schiavo che l’ha rotto può essere straziato a colpi di frusta. Lo schiavo frustato – o che abbia anche solo subìto il dolore di domandare grazia – ha a sua volta bisogno di una soddisfazione. […] L’uomo che ha subìto il male desidera esserne liberato portandolo altrove. […] Il male messo così in circolazione circola senza fine finché cade su una vittima perfettamente pura. Dio che è nei cieli non può distruggere il male […]. Soltanto quaggiù Dio, diventato vittima, può distruggere il male subendolo.
Simone Weil è ebrea, ma pensa al Gesù dei Vangeli, al Cristo di Paolo, alla Croce di Cristo, al rinnovarsi della Croce nell’Eucarestia, alla presenza salvifica della Croce nella storia degli sventurati già nei secoli e nei millenni prima del dramma del Golgota. Cristo è la vittima perfettamente pura perché è Dio; è il Trascendente che prende su di sé tutto il male che l’immanenza produce nel mondo. In Cristo il dolore non si trasmuta in male, ma in amore. Il dolore di Dio, di un Dio puro da ogni assalto da parte dell’immanenza, è un dolore puro da ogni reattività, da ogni risentimento, è un dolore che non diffonde male ma amore, è un dolore non trasferito su altri, ma personalmente accettato. A un siffatto dolore non è estranea la gioia, perché la gioia è intima a quella vera eternità che è propria e sola dell’amore: “Si può concepire che chi ama Dio trovi un’eternità di gioia, e chi ama se stesso un’eternità di dolore. Ma non c’è simmetria; la gioia è veramente eterna; il dolore è suscettibile solo di un’eternità apparente”.
Il dolore, se accettato, è fruizione di trascendenza, è contatto con Dio. La forza invece è immanenza voluta, negazione ad oltranza di ogni trascendenza, è immanenza contagiosa. Il dolore accettato non trasferisce ad altri la propria sofferenza, anzi soffre perché altri non soffrano. Nel dolore accettato gli altri sono Dio stesso che soffre perché io non faccia soffrire gli altri, perché li ami. In un dolore accettato c’è eccesso di amore, sia in quello dell’uomo sia in quello di Dio: “Ogni contatto fra Dio e l’uomo è dolore per entrambi. […] Dio che ama troppo l’uomo, l’uomo che ama troppo Dio”.
Guai se non ci fosse questo “troppo” di amore! È l’eccesso irriducibile che è proprio del “Soprannaturale”, del Trascendente, è la rottura del circolo dell’immanenza, è l’agape del capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi, è la novità e lo stacco del Nuovo Testamento rispetto alle vette dell’etica classica e moderna. In definitiva ogni altro amore è egoismo, autoaffermazione, forza, male in agguato.
2. Impiego sovrannaturale della sofferenza
Ma che cosa implica l’accettazione del dolore? Significa forse accettare anche il male? Sì, “necessariamente”. Accettare il male è l’unico modo per vederlo dal punto di vista di Dio stesso, per vedere e capirlo con un occhio puro da ogni nostra “immaginazione”. Rifacendosi al celebre discorso di Ivan nei Fratelli Karamazov, Simone Weil ne sottoscrive la conclusione. Non c’è nulla che possa giustificare anche il benché minimo dolore inferto dal male su questa terra, perché sarebbe come ignorare l’esistenza di tutto il male. Il male esiste, è totalitario, ma non è tutto, dato che Dio lo ha voluto e in Cristo lo ha accettato: “Anche se questa immensa fabbrica offrisse le più straordinarie meraviglie e non costasse che una sola lacrima di un solo bambino, io non accetterei. Aderisco completamente a questo sentimento. Nessun motivo […] può farmi accettare questa lacrima. […] Un solo motivo, ma soprannaturale: Dio l’ha voluto. E per questo accetterei un mondo che fosse solo male”.
Non si deve per questo rendersi indifferenti al male che c’è nel mondo. Anzi: non pretendere “consolazione” alcuna per il proprio dolore vuol dire scoprire che in se stessi, e nel fondo di ogni uomo, c’è una riserva inesauribile per affrontare il dolore senza nulla concedere al male.
Tutto il male che c’è e c’è stato nel mondo, fin dai primordi dell’umanità, è l’obiettivo fondamentale delle analisi storiche di Simone Weil. Il suo rifiuto di farsi cattolica fu motivato proprio dal compito di essere cattolica nel senso etimologico del termine, cristiana al di là di ogni limite spaziale e temporale, cattolica “di diritto” proprio perché rifiutò di esserlo “di fatto”. La sofferenza di Cristo, la sua Croce, ha fatto da argine al male già prima dell’evento storico della crocifissione, e avrebbe continuato a farlo, anche di fronte alla sventura che si stava abbattendo allora sul mondo: “Uno schiavo […] maltrattato, infine crocefisso, doveva morire infine con il cuore pieno di odio […] se il Cristo non discendeva in lui. Se si pensa che il Cristo è venuto solo venti secoli fa, come perdonare a Dio la sventura degli schiavi di Roma?”.
Le “intuizioni precristiane” che Simone Weil coglie nelle civiltà e religioni antiche, particolarmente in quella egiziana (Libro dei morti) e greca (Omero e la tragedia attica) non appiattiscono la figura del Cristo, danno bensì testimonianza che da sempre Cristo ha posto nell’anima di ogni sventurato limiti insormontabili allo spadroneggiare del risentimento, dell’odio, della vendetta, del male: “Si comprende veramente l’universo e il destino degli uomini, in particolare l’effetto della sventura sugli animi degli innocenti, solo concependo che essi sono stati creati, l’uno come la Croce, gli altri come i fratelli del Cristo crocefisso”.
La Croce di Cristo domina il tempo tutto, prima e al di là di ogni cronologia, proprio perché essa pone originariamente fine al tempo e pone con ciò un limite invalicabile alla pretesa della forza di fare di ogni dolore un’occasione di trionfo del male. Un dolore accettato, in ogni epoca e parte del mondo, dona vita nuova ad ogni sventurato: “Il dolore ci inchioda al tempo, ma l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternità. Così esauriamo la lunghezza indefinita del tempo, la superiamo. Nuova nascita”.
Il male può disporre di tutto il tempo che vuole, si può concedergli anche tempo senza fine, perpetuità, che resta pur sempre solo tempo; ma il dolore, se accettato, può in ogni momento costringere il male a fare i conti con l’eternità, e riceverne condanna eterna. Nel dolore il tempo incrocia l’eternità e da questa viene giudicato, definitivamente. Simone Weil si appella al famoso frammento di Anassimandro:
“Le cose subiscono punizione ed espiazione le une ad opera delle altre, per via della loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Questa è la verità; non la concezione mostruosa che Hitler ha tratto dalla volgarizzazione della scienza moderna. Ogni forza visibile e palpabile è sottoposta a un invisibile limite che non supererà mai. Nel mare, un’onda sale, sale e sale ancora; ma un punto, dove tuttavia c’è solo il vuoto, la ferma e la fa ridiscendere. Così l’ondata tedesca si è fermata, senza che nessuno abbia saputo perché, sulle rive della Manica”.
Il male si serve tatticamente del dolore e può vincere nel tempo battaglie e ancora battaglie, ma manca di una visione strategica che gli possa far conseguire la vittoria. Solo il cristianesimo ne è in possesso: “La grandezza suprema del cristianesimo viene dal fatto che esso non cerca un rimedio sovrannaturale contro la sofferenza bensì un impiego sovrannaturale della sofferenza”.
3. La decreazione come alternativa alla banalizzazione del male
Hitler ha potuto sostenere che il nazismo non era altro che la traduzione in politica del diritto della natura a far valere la sua forza a prescindere da ogni remora morale: “In un mondo […] dove la forza regna ovunque ed è la sola dominatrice della debolezza, costringendola a servire docilmente o a spezzarsi, l’uomo non può richiamarsi a leggi speciali”. Questa è la citazione dal Mein Kampf, che Simone Weil pone alla base del suo confronto con il nazismo: “Tutta la vita di Hitler non è altro che la traduzione pratica di questa conclusione. Chi può rimproverargli di aver realizzato quanto credeva giusto?”.
Il nazismo volle essere forza vincente, forza guidata da esclusiva e ineludibile necessità, pari a quella delle leggi che reggono la natura. Per Simone Weil questa concezione non è né follia né propaganda, è semplicemente il nazismo nella sua essenza, è la forza nella sua permanente pericolosità, è la traduzione di ogni dolore in male.
E tuttavia non il male, bensì la convinzione di poterlo compiere necessariamente, innocentemente, è ciò su cui Simone Weil richiama l’attenzione. Per altro, non è forse proprio l’innocenza del male l’argomento cui nel dopoguerra si ricorse, e ancora si ricorre, per giustificare i crimini nazisti? Ma Simone Weil trae proprio dalla necessità l’alternativa alla banalizzazione del male: “La necessità inflessibile […], il peso schiacciante del bisogno e del lavoro […], il terrore, le malattie – tutto ciò è l’amore divino. È Dio che per amore si ritira da noi affinché possiamo amarlo […]. La necessità è lo schermo posto fra noi e Dio perché possiamo essere”.
Nella bellezza della natura c’è il riflesso dell’onnipotenza di Dio insieme al suo amore per noi. Se Dio si ponesse direttamente davanti a noi, verremmo da lui annichiliti. Ma non dobbiamo fermarci allo schermo. Se questo è opera dell’amore di Dio per noi, per il nostro continuare ad essere, allora dobbiamo corrispondere a tanto amore compiendo da noi e su di noi ciò che Dio, per amore, non può né vuole compiere: “Sta a noi attraversare lo schermo per cessare di essere. Non lo attraverseremo mai se non sappiamo che Dio è al di là a una distanza infinita, e che solo in Dio risiede il bene. Dio può diminuire la sventura degli uomini pur restando ritirato lontano dalle creature solo per la mediazione di coloro che l’amano e che per amore di lui desiderano non più essere”.
Questa volontà di non essere più è il compimento della creazione, è la “de-creazione”: qualcosa che nemmeno Dio, il Creatore, potrebbe fare se non tramite l’uomo: “De-creazione in quanto compimento trascendente della creazione; annullamento che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere, di cui è privata in quanto esiste”.
Il desiderio dell’uomo di non essere più, è il contrario del desiderio di non esserci più; è invece un volere esserci realmente, è voler stare “davanti a Dio”, come direbbe Kierkegaard, o, come dice Simone Weil, è corrispondere con l’amore al fatto che Dio si è innamorato dell’umanità: “Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Gli astri le montagne, il mare, tutto quello che ci parla del tempo, ci reca la supplica di Dio”.
4. Il bene non è possibile in questo mondo
Tutto quanto abbiamo finora detto della meditazione filosofica di Simone Weil è imperniato sul pensiero della trascendenza: una trascendenza forte, pura da ogni compromesso con il pensiero trascendentale della modernità, ma anche una trascendenza difficile da pensare e da tradurre in ricerca, fruizione, partecipazione della verità. Non è forse impossibile per il pensiero della verità pensare qualcosa che sta al di là del pensiero? Pensando la trascendenza non la si rende con ciò stesso immanente al pensiero? Come pensare Dio senza farne un idolo? Nella sua “Autobiografia spirituale” Simone Weil confessa di non essersi mai posto Dio come problema. A Dio non si perviene, perché in questo caso la via per giungere a lui sarebbe nostra produzione, dunque immanenza: “Fin dall’adolescenza ho pensato che il problema di Dio fosse un problema di cui, quaggiù, mancano i dati, e che il solo metodo sicuro per evitare una soluzione falsa, che mi pareva il peggiore dei mali, fosse il non porselo. […] Pensavo che, dato che viviamo in questo mondo, a noi spettasse di adottare l’atteggiamento migliore riguardo ai problemi di questo mondo”.
Successivamente, proprio per affrontare i problemi di questo mondo, Simone Weil si convinse che doveva fare riferimento anzitutto a Dio. Non solo l’etica, ma nemmeno la scienza, l’estetica, la politica ecc. sarebbero possibili senza il riferimento a Dio come Il Trascendente. Ma come pensare e parlare di Dio senza farne una nostra proiezione, una “falsa divinità”?
Simone Weil propone una “prova ontologica sperimentale”. Questa formulazione suona come una contraddizione nei termini. Come chiamare ontologica, dunque a priori, una prova sperimentale? Tuttavia questa denominazione risulta appropriata se si considera che la prova concerne un’esperienza del soggetto, ed in questo senso è sperimentale, e che essa obbliga al tempo stesso il soggetto ad una critica radicale della sua stessa soggettività, dunque a fare qualcosa che da solo il soggetto non sarebbe in grado di effettuare:
Prova ontologica sperimentale. Io non ho in me un principio di ascensione. Non posso arrampicarmi in aria fino al cielo. È solo orientando il mio pensiero verso qualcosa migliore di me che questo qualcosa mi tira verso l’alto. Se sono realmente tirata, ciò che mi tira è reale. Nessuna perfezione immaginaria può tirarmi in alto neppure di un millimetro. Perché una perfezione immaginaria si trova matematicamente al livello di me che l’immagino.
L’esperienza di essere “tirati” fuori e al di sopra di sé non solo è “reale” in quanto effettiva, ma anzitutto offre al soggetto il punto di vista critico che gli consente di distinguere nell’esperienza stessa la realtà dall’immaginazione, e in tal senso l’esperienza dell’elevazione viene legittimamente detta “prova ontologica”. Questa prova dimostra non che Dio esiste, ma la “falsa divinità” di tutte le elevazioni riconducibili all’io quale autore, dimostra che queste sono elevazioni “matematicamente” identiche allo stesso io, nient’altro che auto-elevazioni, frutti dell’”immaginazione”, elevazioni irreali, non realmente sperimentate né sperimentabili come reali. Una elevazione reale non dovrà allora semplicemente essere un innalzamento dell’io, dovrà essere anche un’esperienza in grado di confutare ogni sospetto che voglia ridurla a sola immaginazione, e dovrà per questo essere l’esperienza di qualcosa di inimmaginabile. Che cosa dovrà allora essere? Non potrà essere che l’esperienza del bene: un’esperienza di innalzamento reale proprio perché esperienza di innalzamento inimmaginabile, e, in questo senso, anche un’esperienza “impossibile”, pur restando paradossalmente l’unica esperienza dotata di efficacia critica nei confronti della pretesa alla realtà da parte di elevazioni solo immaginarie. L’esperienza del bene è per Simone Weil la dimostrazione di Dio, o meglio della trascendenza del Bene: dimostra che il Bene è Dio e che Dio ci eleva infondendo in noi il desiderio di sé come il Bene:
Il bene è impossibile. Ma l’uomo ha sempre l’immaginazione a sua disposizione per nascondersi questa impossibilità del bene in ogni caso particolare […]. Noi vogliamo il bene (volere e volere il bene sono una sola e medesima cosa) ed esso non è in questo mondo. Non possiamo cercarlo al di fuori di questo mondo. Ma se lui stesso viene a prenderci, ebbene, è solo se l’abbiamo cercato veramente quaggiù che ci lasceremo prendere.
Trovare il bene in questo mondo è impossibile. Perché? La risposta di Simone Weil è chiara: solo il Trascendente è bene, solo Dio è Bene, tutto il resto, cioè l’immanenza, è male. Non esistono beni mondani, beni parziali, perché sarebbero alla mercé della forza che regge il mondo, sarebbero beni illusori, in definitiva nient’altro che male; un male che la prova ontologica sperimentale si lascia alle spalle, come se fosse un nulla, perché il male, dal punto di vista del bene, è realmente nulla.
5. Il bene trascende i successi del male
In Simone Weil non vi è dualismo metafisico di bene e di male. Dio è il bene. Il male è venuto dopo, con la creazione, e non esisterà più alla fine del mondo. Da questo punto di vista il mondo, dove il bene e il male si trovano confusi, non è un’obiezione alla realtà del solo bene:
Dio, creando per sovrabbondanza di bontà, ha dato al male occasione di esistere. L’unica ragione per pensare che l’universo è buono, è che Dio, sapendo eternamente quale male ne sarebbe venuto, ha eternamente voluto crearlo. Non si può provare Dio con la bontà dell’universo, ma la bontà dell’universo con Dio; o piuttosto questa è materia di fede. Ma l’universo è bello, compreso il male, che preso nell’ordine del mondo, ha una sorta di bellezza terribile.
Il bene trascende originariamente e costantemente tutti i successi del male, non ne viene toccato; e ciò attesta che, anche se nel mondo il male può produrre senza fine sventura e sventurati, esso non potrà mai contaminare la purezza del bene e di coloro che lo vogliono. I puri non sporcano mai la loro anima anche quando si sporcano le mani combattendo nel mondo contro il male. Il loro combattere consiste nel farsi prendere dal bene, nel fare solo del bene, anche in questo mondo, nonostante l’inimmaginabilità del bene: “[Il mondo] è un àmbito in cui il bene non produce altro che bene, il male non produce altro che male […]. Il bene e il male, è questo il centro del problema, e la verità essenziale è che la loro relazione non è reciproca. Il male è il contrario del bene, ma il bene non è il contrario di alcunché”.
L’esistenza di anime pure è la testimonianza vivente della prova ontologica sperimentale. Ma in questo mondo esistono veramente anime pure? Bisogna crederci, se si vuole fare del bene in questo mondo: “La fede è la certezza di un àmbito diverso dalla mescolanza inestricabile di bene e di male”.
6. L’Iliade è il poema della forza e la sconfitta della forza
La mescolanza inestricabile di bene e male nel mondo ha per Simone Weil una sua “bellezza terribile”. La grande poesia ne ha dato testimonianza, in Omero anzitutto, non nell’Omero dell’Odissea, ma nel poeta che ha cantato la guerra, la più assurda delle guerre, fatta per una donna che in fondo non importava a nessuno, una guerra senza vero perché, come accade per ogni guerra, una guerra fatta solo dalla forza e per la sola forza, fatta affinché nel mondo non possano esserci altre ragioni al di fuori di quelle della forza.
Nello splendido saggio L’Iliade poema della forza Simone Weil indica la grandezza di Omero proprio nella purezza con cui la sua poesia viene a contatto con la guerra, con una guerra vissuta nei secoli dagli stessi Greci come una colpa imperdonabile. Per Simone Weil la guerra di Troia è il paradigma di ogni guerra; Omero è colui che ne ha saputo esprimere tutto il male ed insieme l’incapacità del male di contaminare il bene. La “bellezza terribile” del male sta proprio in questa sua incapacità di contaminare il bene.
Omero nulla risparmia della brutalità della guerra:
Il soldato che vince è come un flagello della natura; posseduto dalla guerra, è divenuto, non meno dello schiavo sebbene in tutt’altro modo, una cosa, e le parole sono prive di potere su di lui come sulla materia. L’uno e l’altro, al contatto della forza, ne subiscono l’effetto infallibile che è di rendere quelli che tocca o muti o sordi. […] Tale la natura della forza. Il potere che essa esercita di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le parti; essa pietrifica diversamente, ma ugualmente le anime di quelli che la subiscono e la usano (31).
L’Iliade non riuscirebbe tuttavia ad assurgere a poesia, sarebbe solo un monotono paesaggio desertificato dalla forza, se in essa non vi fossero
disseminati qua e là momenti luminosi, momenti brevi e divini nei quali gli uomini hanno un’anima. L’anima che così si risveglia un istante, per riperdersi subito dopo sotto l’imperio della forza, si desta pura e intatta. […] La tradizione dell’ospitalità, anche dopo diverse generazioni, ha la meglio sull’accecamento della battaglia […]. L’amore del figlio per i genitori, del padre, della madre per il figlio è senza tregua indicato in modo breve quanto toccante […]. L’amore coniugale, condannato alla sventura, è di una sorprendente purezza. Lo sposo, evocando le umiliazioni del servaggio che attendono la sua donna amata, omette quella il cui solo pensiero macchierebbe la loro tenerezza.
Se non avesse dato ascolto a questi rari momenti, Omero non avrebbe potuto considerare la guerra tema degno di trasfigurazione poetica, e Simone Weil non avrebbe potuto chiamare l’Iliade “poema della forza”. Forza e poesia sono infatti di per sé inconciliabili, perché la forza non lascia spazio che a se stessa, è monotonia, è qualcosa che non potrebbe assolutamente essere cantato. Come poté Omero fare poesia sulla guerra? La sua grandezza sta appunto nell’aver tratto da quel poco che sotto le mura di Troia non era sola forza, ispirazione sufficiente per vincere anche la più insistente delle monotonie. Solo apparentemente la forza è protagonista nell’Iliade: “Gli uditori dell’Iliade sapevano che la morte di Ettore avrebbe dato breve gioia ad Achille, e la morte di Achille breve gioia ai Troiani, e la caduta di Troia breve gioia agli Achei”.
Si deve alla poesia di Omero il prodigio di aver elevato a protagonista del suo poema ciò che ha a che fare con la guerra solo in quanto “risveglia l’anima” dal sonno della guerra: “Tutto ciò che è assente dalla guerra, tutto ciò che la guerra distrugge o minaccia è avvolto di poesia nell’Iliade; i fatti di guerra mai”.
Con questa interpretazione dell’Iliade Simone Weil intende, in ciò discepola di Omero, “svegliare” l’anima dei suoi contemporanei, che si erano illusi che con l’affermazione di un irreversibile progresso non sarebbe stato più necessario ricorrere alla forza per ottenere ragione, che sarebbe bastata questa. Hitler stava dimostrando il contrario. Bisognava tornare all’Iliade, “specchiarsi” in essa, svegliarsi dal sogno di una politica guidata non più dalla forza ma dal progresso. Nell’Iliade si deve leggere il presente succube della forza, se si vuol preparare un futuro diverso: “Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi”.
7. Hitler non ha futuro, Venezia sì
Nel 1938, poco prima della composizione del saggio sull’Iliade, e prima dei Cahiers da cui ho tratto i precedenti pensieri (1941-1942), Simone Weil ebbe l’esperienza mistica di Solesmes. Fu la sua “prova ontologica sperimentale”. Ella conquistò allora il punto di vista della trascendenza di Dio come riferimento imprescindibile per la ricerca della verità, e come fondamento di nuova capacità critica e di discernimento profetico. Cosa accadde a lei “per caso” a Solesmes durante i riti della settimana santa del 1938? Mentre stava recitando una poesia di George Herbert, un autore inglese del primo Seicento, intitolata Amore, Simone Weil avvertì che la sua recitazione si era trasformata in una preghiera che subito sentì esaudita: “Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha preso”.
Questa esperienza non poteva essere frutto della sua immaginazione. Lei aveva sempre sentito ripugnanza per i racconti di “apparizioni”, aveva sempre nutrito indifferenza per gli scritti dei mistici, era sempre stata intransigente con se stessa nel servizio della verità: “Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è verità […]. Non mi sono mai domandata se Gesù è stato o no l’incarnazione di Dio; ma di fatto ero incapace di pensare a lui senza pensarlo come Dio”.
Nell’esperienza mistica fatta a Solesmes Simone Weil vide nella Croce di Cristo il solo criterio che la potesse guidare sulla via della verità: “Hitler potrebbe morire e resuscitare cinquanta volte, non per questo lo considererei il Figlio di Dio. E se l’Evangelo omettesse ogni menzione della resurrezione del Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta”.
Gli ultimi scritti socio-politici di Simone Weil non sono più improntati al pessimismo, al limite della disperazione, che accompagna le analisi legate al suo soggiorno nella Berlino del 1932-1933. Dopo Solesmes Simone Weil guadagna serenità, nutre fiducia nel futuro. Ne dà testimonianza l’ampio scritto che avrebbe dovuto chiamarsi Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, un saggio che pensa a ciò che avrebbe dovuto essere l’Europa dopo Hitler, dunque –possiamo dire noi – dopo la shoah.
In questo scritto la forza viene posta a confronto con la “radice”. La forza è figura dell’immanenza, la radice è simbolo di trascendenza. La radice è rapporto, con il terreno anzitutto, che non è né radice né pianta; la radice è un rapporto che vuole che pianta e terreno restino in rapporto; la forza non sa nulla di cosa sia e come debba essere un rapporto. Non vuole rapporti, e per questo non solo sradica, ma fa sì che gli sradicati non tollerino che gli altri abbiano radici: “Chi è sradicato sradica”.
Dopo Hitler, della cui prossima sconfitta bellica Simone Weil è in attesa, si dovrà tornare a riprendere contatto con le radici, quelle che nemmeno il nazismo - Simone Weil ne è convinta – avrà nel frattempo potuto sradicare, le radici che la giustizia, espressione del bene, ha da sempre gettato nel cuore dell’uomo:
C’è una sola scelta da fare. O bisogna riconoscere che nell’universo accanto alla forza opera un principio diverso dalla forza, o bisogna riconoscerla come signora unica e sovrana anche per le relazioni umane. […] Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini. […] L’uomo non ha il potere di escludere assolutamente ogni sorta di giustizia dai fini che egli propone alle sue azioni. Persino i nazisti non hanno potuto farlo. Se un uomo lo potesse, essi l’avrebbero certo potuto.
I nazisti non hanno potuto sradicare la giustizia dal cuore degli uomini perché la forza, che unicamente li muove, può certo sradicare le radici fissate nel tempo, ma non quelle radici che, sprofondando nell’anima, sono in rapporto con il bene, e che qui attingono alle “forze dell’eternità”, come si esprime Kierkegaard negli Atti dell’amore. La forza che agisce nel tempo, invece, nemmeno sospetta che esistano radici siffatte. Il nazismo ha fatto della forza un idolo, una “corazza” contro un principio diverso dalla forza, contro quella capacità di accettare il dolore che interrompe la circolazione del male. I nazisti hanno fatto della forza una corazza contro la trascendenza: “Il puro amor di Dio abita il centro dell’anima, lascia la nostra sensibilità esposta alla offese; quell’amore non è una corazza. Mentre l’idolatria è una corazza; impedisce al dolore di penetrare fino all’anima”.
La forza, in quanto chiusura ad oltranza alla trascendenza, non può non assolutizzare la storia. Questo è il motivo per cui Simone Weil vede che, non importa se in nuce o in atto, il nazismo è presente in ogni storicismo, anzitutto in quello che idolatra il progresso.
È per questo inutile e fuorviante pensare a come si dovrebbe punire Hitler, una volta sconfitto. Hitler ha già conseguito il suo fine: abitare per sempre nella storia. Nessuno potrà mai cacciarlo fuori da questa. Esserci, nella storia, “al di là del bene e del male”, è un successo che nessuno potrà mai togliere a Hitler, perché questo era proprio il suo fine. Per punire Hitler si deve badare a tutt’altro, ammonisce profeticamente Simone Weil nel 1943. Quale che sia la pena che si vorrà infliggere a Hitler, questa
non impedirà, fra venti, cinquanta, cento o duecento anni, a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, che ha avuto dal principio alla fine un destino grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un uguale destino. In questo caso guai ai suoi contemporanei. Il solo castigo capace di punire Hitler, e di distogliere dal suo esempio i ragazzi affamati di grandezza che vivranno nei secoli avvenire, è una così completa trasformazione del senso della grandezza, che necessariamente escluda Hitler.
Nella tragedia, rimasta incompiuta, Venezia salva, molto cara a Simone Weil negli ultimi anni dell’esilio, è posto a tema proprio il principio di grandezza alternativo a quello che è stato di Hitler e di ogni storicistica idolatria della grandezza. È il principio in grado di forare la corazza dell’idolatria di questa grandezza, è la radice che nell’anima di ogni uomo attinge alle forze dell’eternità. La trama è tolta dalla cronaca di Saint-Réal, Conjuration des Espagnols contre la République de Venise. Si immagina la scena nella Venezia del XVII secolo, politicamente decaduta, ma sempre circonfusa di sovrumana bellezza, una Venezia convinta che la bellezza basti non solo per rendere felici i suoi abitanti, ma anche per difenderla da nemici in possesso di ben altra forza. Questa Venezia, corazzata solo di bellezza e di gioia di vivere, avrebbe dovuto cadere in mani spagnole per opera di una congiura che in una sola notte, nella notte prima della più grande festa cittadina, sarebbe stata in grado di togliere non solo a Venezia la sua bellezza, ma ai veneziani le loro radici, abituate a nutrirsi di libertà e di bellezza.
Simone Weil mette in bocca a Renaud, la mente della congiura che in una notte avrebbe dovuto consegnare Venezia alla Spagna, un piano che dà i brividi. Ordina ai suoi mercenari di mettere a sacco la città, senza alcun riguardo per cose e persone, poiché durante la notte hanno licenza di fare tutto: distruggere monumenti, stuprare anche le più nobili donne, uccidere chiunque senza alcun motivo. Così al mattino tutto sarà diverso, non avranno più bisogno di esercitare alcuna violenza sui veneziani. Questi, privati delle loro radici, obbediranno devotamente al nuovo potere: “Il cielo, il sole, il mare, i monumenti di pietra non saranno più realtà per loro. Quanto ai bambini, nasceranno già sradicati”.
La congiura fallisce perché Jaffier, uno straniero, comandante dei mercenari, si è intanto innamorato della bellezza di Venezia e del modo con cui vivono i suoi abitanti, e così ha attinto alle loro stesse radici: ormai vive non più in base al principio della forza, come gli ha imposto Renaud, ma a quello della radice. Jaffier denuncia al Tribunale dei Dieci la congiura e gli altri congiurati, fra i quali il più caro degli amici. I Dieci in compenso gli salvano la vita, lo ripagano con molto oro, ma gli impongono di lasciare Venezia e di non tornarvi mai più. Ed ecco Jaffier, disperato, grida: “Andare dove? Io non ho luogo dove andare”.
Anziché farsi accompagnare ai confini della Repubblica, preferisce buttarsi nella mischia ancora in corso fra mercenari e guardie di Venezia, e farsi uccidere, preferisce morire pur di continuare a sentirsi radicato a Venezia.
Un popolano, un semplice “apprendista”, allo spuntare del nuovo giorno, così commenta la sventata minaccia: “Che gioia oggi per noi, popolo di Venezia, questa regina dei mari, dove il più umile è un re, veder la nostra città, nel giorno della gran festa, salvata per miracolo dal minaccioso destino”.
Venise sauvée: sì, Venezia salvata, salvata “per miracolo”, non da un miracolo nell’accezione consueta di qualcosa che viola le leggi della natura, bensì salvata per opera delle sue radici: forti al pari della natura, più forti della sola “forza”. La radice significa per l’uomo trasmissione del bene nel tempo, e in questo senso è un “miracolo”. È un miracolo di cui può disporre ogni uomo, purché presti quell’”attenzione” che per Simone Weil svolge nell’uomo una funzione analoga a quella che Aristotele assegna all’”intelletto agente”; sì, purché l’uomo presti attenzione al fatto che nel mondo, in ogni uomo, “accanto alla forza opera un principio diverso dalla forza”. Basterà fare attenzione a questo altro principio per anche volerlo, giacché “volere e volere il bene sono una sola e medesima cosa”.